A meno di un mese dalle elezioni politiche, il dibattito geopolitico tra i partiti si concentra sui rapporti con la Russia e il sostegno all’Ucraina eppure Pechino, a cui restano sempre meno amici in Europa, guarda con grande interesse al voto italiano.
La Cina è lontana nella campagna per le elezioni politiche del 25 settembre:quando i partiti guardano all’estero, il dibattito si concentra principalmente sui rapporti con la Russia e sugli aiuti all’Ucraina, tra promesse di difendere Kiev, accuse di ingerenze di Mosca e ammiccamenti veri o presunti a Vladimir Putin. Eppure i rapporti con Pechino saranno uno dei dossier più scottanti che il successore di Mario Draghi si ritroverà sulla scrivania di Palazzo Chigi, una cartina di tornasole della politica estera del nuovo governo e delle sue relazioni con gli Stati Uniti.
Pechino in cerca di amici
È infatti opinione comune, a Bruxelles e soprattutto a Washington, che nel medio-lungo termine la Cina rappresenti la vera sfida geopolitica per l’Occidente e per i nuovi equilibri mondiali. Anche perché il braccio di ferro con Mosca è destinato a congelare le relazioni in una prolungata Guerra fredda, mentre i rapporti europei con Pechino sono in continua evoluzione.
La Cina è strategica per l’Ue per motivi economici, visto che è il suo primo partner commerciale, ma sul piano politico Pechino può contare ormai su pochi governi amici nel Vecchio Continente. Dopo la mancata condanna dell’invasione russa dell’Ucraina, il presidente Xi Jinping ha visto deteriorarsi i rapporti con alleati chiave, Repubblica Ceca e Lituania, e può fare affidamento solo su Ungheria e Grecia.
Anche per questo, l’ambasciata della Repubblica Popolare a Roma guarda con grande interesse all’esito del voto italiano. Una recente relazione del Copasir ha ricordato come da una decina d’anni l’Ufficio per la Propaganda estera cinese investa “enormi risorse nella infowarfare per condurre operazioni di guerra informativa a livello globale” e influenzare le politiche degli Stati. È immaginabile che nel mirino ci sia anche l’Italia, un Paese che viene da anni di rapporti altalenanti con la Cina senza certezze sull’indirizzo che vorrà imprimervi il futuro governo.
Fari puntati sul centrodestra
I fari sono sicuramente puntati sulla coalizione di centrodestra, favorita per la vittoria il 25 settembre, e il cui “dossier Cina” viene desunto in controluce dalle prese di posizione degli ultimi anni. Giorgia Meloni e Matteo Salvini non hanno mai risparmiato aspri attacchi al governo della Repubblica Popolare, con allusioni neppure troppo velate alle sue responsabilità nella pandemia, ma allo stesso tempo la loro solida amicizia con Viktor Orbán, il premier ungherese ultraconservatore molto vicino a Putin e Xi, desta qualche timore alla Casa Bianca e a Bruxelles per la possibile ‘proprietà transitiva’.
Il leader leghista, che l’amministrazione Trump vedeva come un alleato quasi naturale anche in chiave anticinese, era tuttavia vicepremier nel 2019, quando l’Italia firmò gli accordi per entrare nella Via della Seta. La leader di Fratelli d’Italia, invece, ha sempre condannato l’autoritarismo di Pechino, e a fine luglio ha persino sfidato l’etichetta diplomatica incontrando l’ambasciatore de facto di Taiwan in Italia. Nel dibattito di Cernobbio del 4 settembre, Meloni ha rimarcato che una caduta dell’Ucraina vedrebbe l’Europa finire sotto l’influenza di Pechino. Nella corsa per diventare la prima donna presidente del Consiglio, si presenta quindi come una forte sostenitrice di un blocco occidentale a guida statunitense in chiave anti-cinese.
Un’ulteriore garanzia per Washington resta Silvio Berlusconi, rimasto sempre coerente e fermo sulle sue rigide posizioni nei confronti della Cina, sebbene rimanga da vedere quanto Forza Italia potrà influire sulle strategie di coalizione.
Le ambiguità del Pd e l’asse privilegiato con il M5s
Nel centrosinistra, l’atlantismo professato dal Partito democratico non ha impedito ai suoi leader di farsi sedurre dalle opportunità che le ricche partnership commerciali con il gigante asiatico presentavano. Nel 2014, il governo Renzi ospitava a Roma il premier cinese Li Keqiang per siglare 20 accordi complessivi, preludio al successivo ingresso nel grande progetto della Via della Seta, celebrato nel 2017 anche dall’allora premier Paolo Gentiloni, unico leader del G7 a prendere parte al “One Belt One Road Forum” a Pechino. Lo stesso attuale segretario Enrico Letta, all’epoca finito ai margini del Nazareno, negava “ogni possibile contraddizione tra supporto alla Via della Seta e il mantenimento di solida fedeltà agli Usa”. Il Partito democratico si è distanziato anche da diverse battaglie civili sostenute da altre forze atlantiste come Stati Uniti, Francia e Canada: giusto un anno fa, i dem bloccarono la risoluzione parlamentare a firma leghista per l’adozione del termine “genocidio” per la repressione della minoranza degli uiguri, considerato eccessivo. Ospitando al suo interno visioni molto eterogenee in politica estera, la coalizione di centrosinistra sembra voler mantenere una strategica ambiguità riguardo alla Cina e allo scenario nello Stretto di Taiwan, ma è propria in quest’ambiguità e incertezza che Pechino solitamente fonda le sue partnership.
C’è poi il M5s, che ha sempre strizzato l’occhio a Pechino: il suo fondatore Beppe Grillo, la galassia Rousseau e Casaleggio e molti esponenti hanno sostenuto la partnership economica con la Cina anche a costo di ‘sorvolare’ sulla repressione degli uiguri o a Hong Kong. Del resto fu Luigi Di Maio in epoca ‘gialloverde’ a firmare il memorandum sulla Via della Seta.
In conclusione, è facile immaginare che da Pechino preferirebbero trovarsi a dialogare con una controparte più pragmatica e meno aggressiva, specialmente riguardo a temi sensibili come Taiwan e la questione uigura. Non deve sorprendere che durante le proteste di Hong Kong venissero sventolati ed urlati i nomi di Donald Trump e Boris Johnson, o che a Taipei abbiano accolto con delusione l’elezione di Joe Biden nel 2020. Pechino teme l’ascesa di forze politiche meno disposte al dialogo e a una tacita accettazione di politiche interne autoritarie e illiberali nel nome degli affari e della partnership economica. L’Italia fu l’unico Paese del G7 ad abbracciare la Via della Seta e Xi vede il nostro Paese come una potenza in declino facilmente seducibile dalla liquidità cinese. Lo scenario, tuttavia, potrebbe cambiare decisamente dopo settembre, e oggi più che mai Pechino teme la svolta a destra.