Alessandro Antonini

Torna in vigore l’interdittiva antimafia per un’azienda calabrese che ha partecipato alla procedura di acquisto di sei unità abitative da destinare ad edilizia residenziale sociale nel comune di Perugia. Il Consiglio di Stato ha riabilitato il provvedimento, preso dal prefetto di Perugia il 28 aprile 2019, ribaltando una sentenza del Tar Umbria per la quale i fatti contestati risalivano troppo indietro tempo e i dipendenti della società risultati gravati da precedenti di polizia non svolgevano più la propria attività presso ditta. Ma per il Consiglio di Stato i giudici del cuore verde non avrebbero tenuto ben conto di una serie di fattori che attesterebbero il pericolo di infiltrazione, venendo meno alla regola probatoria del “più probabile che non”. L’interdittiva ha tratto fondamento da “plurimi elementi raccolti dalle forze di polizia di Perugia e dalla Dia, che avrebbero permesso di dedurre una contiguità della società ad ambienti legati alla criminalità organizzata”.
In particolare, sono emersi contatti tra il legale rappresentante della società, “legato a una cosca di ‘ndrangheta del crotonese, con l’ingerenza di un altro soggetto, anche questo legato alla ‘ndrangheta, che si sarebbe concretizzata nell’evitare nel 2011 il licenziamento di due dipendenti risultati appartenere alla criminalità crotonese”. Non solo: “Molteplici dipendenti della società e, nello specifico, sono risultati coinvolti, alcuni arrestati e poi processati, per reati di rilievo sotto il profilo antimafia”, è scritto ancora nella sentenza.
Per i giudici il Tar “non ha infatti dato il giusto peso ai contatti, avutisi almeno sino al 2017, tra il soggetto considerato organico, ed anzi referente, alla cosca di ‘ndrangheta che in quel momento era in carcere, atteso che l’influenza pressante della criminalità organizzata può essere organizzata, con regìa silenziosa ma potente, anche dal carcere”.
La stessa sentenza impugnata e poi ribaltata non “ha considerato che due dipendenti della società anch’essi collegati alla criminalità mafiosa, sono stati trattenuti presso la società quali dipendenti dal 2011 fino al 2017, e ciò proprio per la pressione dell’uomo della cosca, risultante da intercettazioni telefoniche”. Il licenziamento, dunque, – richiamato dal giudice di primo grado a dimostrazione dell’insussistenza di condizionamenti mafiosi – “è stato in realtà disposto solo nel 2017 ed è quindi ampiamente tardivo avendo la società – deciso di conservare, tra i propri collaboratori, due soggetti controindicati proprio per la pressione dell’esponente mafioso sul responsabile della società, a ‘protezione’ (secondo le regole delle mafie) dei due dipendenti”. La ditta è rimasta esclusa dal bando.





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