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di Assuntina Morresi*

In agosto sono state rese pubbliche le nuove linee di indirizzo sull’aborto farmacologico firmate dal ministro Roberto Speranza, basate su un nuovo parere del Consiglio superiore di sanità.

E l’aborto cambia radicalmente nella sua concezione, con una svolta a 180 gradi rispetto all’impostazione della Legge 194 che ritiene l’Interruzione volontaria della gravidanza (Ivg) non solo un evento negativo di cui cercare di rimuovere le cause, ma un problema sociale, che ci riguarda tutti, e di cui le istituzioni sanitarie e sociali debbono farsi carico.

È per questo che, secondo la 194, l’intera procedura deve svolgersi in una struttura ospedaliera autorizzata fra quelle del Servizio sanitario nazionale (Ssn).

Cosa avveniva 10 anni fa

Dieci anni fa, invece, tre pareri del Consiglio superiore di sanità avevano orientato le linee di indirizzo per il metodo farmacologico, che prevedevano tre giorni di ricovero ordinario per chi volesse abortire con la RU486, evitando che le Ivg avvenissero al di fuori delle strutture del Ssn, senza tutele per le donne.

L’aborto chimico, infatti, è di per sé imprevedibile, nelle modalità e nei tempi: mediamente si impiega tre giorni a completare la procedura, ma possono essere anche di più e soprattutto non è possibile prevedere a priori quando inizierà l’emorragia che segna che l’aborto è in corso.

Dieci anni fa, mentre la RU486 veniva introdotta in Italia dall’Europa, chi scrive era consulente del ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali Maurizio Sacconi, ed era sottosegretaria Eugenia Roccella: insieme abbiamo seguito i lavori ministeriali che hanno portato alle precedenti linee di indirizzo.

E proprio per la conoscenza diretta di quegli avvenimenti, Eugenia Roccella e io abbiamo firmato tre interventi sul quotidiano Avvenire.

Il primo del 12 agosto è una lettera aperta ai governatori di tutte le regioni italiane.

Indirizzi ministeriali e sentenze sulla ru486

Spieghiamo che gli indirizzi ministeriali non sono vincolanti, tanto che dieci anni fa l’Emilia Romagna se ne discostò subito, organizzandosi per un regime di day hospital, e lo ha potuto fare: se un governatore volesse, insomma, potrebbe benissimo continuare a garantire un regime di ricovero ospedaliero, non per un boicottaggio ma per un di più di sicurezza sanitaria, rispetto alle nuove indicazioni, che sono contraddittorie e non offrono tutele sufficienti nei confronti delle donne che affrontano l’aborto chimico.

Ma soprattutto chiediamo un monitoraggio specifico per l’aborto farmacologico, per gli effetti collaterali e gli eventi avversi specifici per questa procedura, e che sfuggono alla farmacovigilanza, costruita intorno alle tecniche chirurgiche.

Il secondo intervento, del 18 agosto, è un commento al nuovo parere del Consiglio superiore di sanità e alle linee guida che ne sono derivate. Tante le contraddizioni interne, soprattutto la possibilità di abortire in consultorio è evidentemente in contraddizione con la Legge 194, che ai consultori affida altre finalità, e non li nomina neppure fra le strutture in cui si può abortire.

In un terzo intervento, del 23 agosto, rivolto al ministro Speranza, andiamo nel dettaglio della farmacovigilanza necessaria per monitorare la procedura abortiva farmacologica, illustrando i dati necessari da raccogliere. La governatrice umbra Tesei ha già confermato l’adesione alle nuove linee ministeriali, e l’assessore Coletto ha specificato che sarà anche possibile optare per il ricovero ospedaliero, per chi lo chiedesse, ma sicuramente non avrà bisogno di specificarlo formalmente: non si può certo vietare a livello regionale il ricovero ospedaliero, qualora ce ne fossero i presupposti clinici, a prescindere dal fatto che si parli di aborto o meno.

In Umbria: mobilitazioni a sostegno della vita

Vedremo piuttosto se ci saranno iniziative della amministrazione per organizzare in Umbria una farmacovigilanza adeguata al nuovo corso abortivo farmacologico. Ma non è tutto: ricordiamo che nella nostra regione si sta lavorando anche a un altro tavolo, fortemente richiesto dal Movimento per la Vita: fondi di sostegno alle maternità difficili.

Nelle settimane scorse, nel pieno delle polemiche sull’aborto, abbiamo chiesto alla politica locale un cambio di passo: sosteniamo la vita! Dobbiamo farlo soprattutto quando ci sono condizioni difficili: tante donne in gravidanza, se sostenute adeguatamente, diventerebbero felicemente madri e non affronterebbero l’esperienza più drammatica che una donna può fare nella sua vita, quella dell’aborto.

È una ingiustizia evidente e radicale quella di uno stato che, a una donna incinta in difficoltà, offre solamente la possibilità di rinunciare al figlio, e non dà invece quella solidarietà concreta e fattiva che consentirebbe di farlo nascere.

L’esperienza del Movimento per la Vita dice che fra le migliaia di donne che sono riuscite a diventare madri perché hanno trovato l’aiuto liberamente richiesto, nessuna si è mai pentita di averlo fatto, ma ognuna è rifiorita, ha trovato in sé energie e forza e competenze inaspettate, che l’hanno accompagnata nella vita insieme al proprio bambino.

La politica in Umbria ha risposto al nostro appello. In regione, rappresentanti dell’opposizione civica hanno già presentato una proposta di legge a sostegno della natalità, con aiuti per maternità difficili, mentre politici della maggioranza hanno annunciato un testo riguardante la famiglia. Anche a livello di amministrazione comunale ci sono state iniziative. Il lavoro continua.

L e nuove linee di indirizzo annunciate dal ministro Speranza via Twitter, e anticipate con una circolare ministeriale, si basano su un parere del Consiglio superiore di sanità (Css) molto contraddittorio. Innanzitutto non si capisce perchè siano state modificate quelle vigenti: non ci sono novità giuridiche né scientifiche, i prodotti chimici usati sono sempre gli stessi, e soprattutto non vengono mai messi in discussione i presupposti con cui i precedenti tre pareri del Css concordano nel ricovero ospedaliero.

Al contrario, vengono confermate tutte le caratteristiche del metodo farmacologico, che lo rendono incerto, imprevedibile e più pericoloso di quello chirurgico. Senza ricovero ospedaliero, infatti, è possibile che l’emorragia che segna l’inizio dell’aborto avvenga ovunque si trovi la donna – a casa, al lavoro, in giro – con tutte le conseguenze del caso. Impressiona leggere i criteri non clinici di ammissione al metodo: la donna non deve essere ansiosa, non deve avere una bassa soglia di tolleranza del dolore, non deve avere condizioni abitative troppo precarie, deve avere la possibilità di raggiungere il pronto soccorso dell’ospedale entro un’ora.

È poi significativo il fatto che per le minori che abortiscono con la RU486 continui l’indicazione per il ricovero ospedaliero. Ma se fosse un metodo tanto migliore di quello chirurgico e meno invasivo, dovrebbero essere proprio le minori ad avere un accesso garantito: perché negarglielo?

È esteso il limite da 7 a 9 settimane di gravidanza, mostrando esplicitamente che gli eventi avversi raddoppiano in percentuale e, al contrario, commentando che l’aumento è lieve. E soprattutto ad applicare le linee ministeriali si rischiano fino a tre anni di reclusione: l’articolo 19 della Legge 194 prevede queste sanzioni per chi pratica l’aborto al di fuori delle modalità previste negli artt.5 e 8, cioè anche per aborti effettuati al di fuori delle strutture del Ssn esplicitate. E il domicilio delle donne, e i consultori sono nel nuovo indirizzo ministeriale, ma non nella legge. (A.M.)

*pres. Movimento per la Vita – Umbria



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